Scrittori della terra d’Abruzzo. Giacomo D’Angelo, D’Annunzio e Flaiano. L’Antitaliano e l’Arcitaliano, Chieti, Solfanelli, 2010
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di Giuseppe Panella*
«Leggere scritti che si occupino sia di Gabriele D’Annunzio che di Ennio Flaiano non capita di frequente, anzi quasi mai. Il binomio dei due artisti come tema, infatti, nella sterminata letteratura sul primo e nella colluvie plurigrafomane sul secondo non è mai stato toccato, né in sede critica, né quale divagazione “stravagante” alla Giorgio Pasquali, né a mo’ di “capitolo” o “palinfrasco” alla Enrico Falqui, per le molteplici e stellari differenze tra i due artisti, soprattutto su un versante: quello dell’umorismo» (p. 5).
Se lo scrittore pescarese Flaiano è stato certamente uno degli scrittori satirici più feroci e acuti del dopoguerra italiano, D’Annunzio non è stato mai attraversato dal genio del Comico (anche se ne avrebbe avuto bisogno). Certo lo stesso Flaiano non apprezzò molto la definizione di “scrittore spiritoso” che Giuseppe Prezzolini, sulle colonne di “Il Borghese”, gli attribuì il 17 maggio del 1970. Inoltre, se nelle sue opere letterarie Flaiano si finge umorista (nel senso in cui tale qualifica può essere attribuita anche ad autori come Swift o Lichtenberg o Alfred Jarry giusta la loro parentela surrealista sostenuta da André Breton in una sua celebre Antologia dello humour nero), non sembrano certo comici o “spiritosi” certi suoi libri come lo straordinario Tempo di uccidere del 1947 o le sue sceneggiature maggiori, quelle per i film di Fellini, ad esempio.
In realtà, Flaiano “si finge” comico o umorista per non sembrare troppo “nero” o “amaro” – anche lui, come proponeva Jean de Santeuil nel Seicento, castigat ridendo mores, pur tenendo presente che il suo ridere è sempre pieno di tristezza e di una sconsolata desolazione per le sorti presenti degli Italiani che gli sembrano incapaci di imparare dal passato per ottenere un futuro migliore.
Entrambi però avevano molti dati caratteriali in comune – primo fra tutti, una qual certa permalosa capacità di arrabbiarsi di fronte a sgarbi veri o eventuali:
«Un tratto caratteriale accomunava il “vivacissimo cafoncello abruzzese” (così lo aveva definito Giovanni Macchia) e il concittadino diarista notturno: l’indole permalosissima. Evidente in mille episodi per D’Annunzio, come lo sfogo, in un’intervista al “Corriere della Sera”, nel 1911: “A leggere i giornali italiani in questi giorni sembra veramente ch’io non abbia fatto tragedie, romanzi, poemi, ma soltanto debiti in tutta la mia vita, e che in questo elegante esercizio io sia l’Unico, senza precedenti e senza successori. La grande ombra di Balzac freme di gelosia in Purgatorio”. Clamorosa l’incazzatura di Flaiano in aereo, quando nel viaggio della Rizzoli Film per l’Oscar, fu confinato in classe turistica. Tullio Kezich, cordiale biografo di Fellini (ma sbrigativo e freddo verso Flaiano, appena poche citazioni nel suo ricco libro sul regista riminese), ha più volte ricordato che Fellini in quel fatidico viaggio verso New York era andato da “Enniotto” (così familiarmente lo chiamava o anche “Ennietto”, secondo il gusto dei vezzeggiativi cui Fellini indulgeva) a scusarsi per il disguido e lo aveva invitato a passare nella classe di lusso. Figurarsi se Flaiano poteva accettare il gesuitico invito riparatore» (p. 11).
Andò a finire che a New York non vollero cambiare il biglietto con uno in prima classe (lo scrittore di Pescara voleva pagare con un assegno che non fu accettato) e che Flaiano dovette ritornare in Italia sempre in classe turistica. Non fu certo questa la ragione della rottura con Fellini (molti anni dovevano ancora passare dal primo Oscar per La strada a Giulietta degli spiriti, l’ultimo film scritto
per il regista riminese). Certo è però che Flaiano si sentiva molto limitato dalla strapotente personalità di Fellini e si riteneva non un suo collaboratore quanto un suo “subordinato” (“uno che attacca il padrone dove vuole l’asino” – come si legge nel Diario degli errori). La sua capacità superiore di scrittore riguardo agli altri collaboratori abituali di Fellini lo fece mantenere un atteggiamento di odio-amore rispetto al linguaggio artistico che gli aveva dato fama e, soprattutto, il denaro per vivere. Inoltre, il fatto che nessun produttore si fidasse di lui tanto da affidargli la regia di un film (non gli fu possibile neppure trasformare in pellicola La cagna tratta dal suo racconto Melampus in pellicola ma il film fu fatto girare da Marco Ferreri) fu sicuramente motivo di amarezza ulteriore. Il successo come sceneggiatore non era certo la maggiore motivazione di Flaiano – la sua aspirazione rimase per tutta la vita quello di essere uno scrittore come gli era accaduto con il suo unico romanzo premiato con lo Strega nel 1947. Il rapporto con la scrittura resterà sempre il vero motore della sua produttività e ne fanno fede i numerosissimi inediti e i progetti rimasti inesitati che costituiscono la gran parte delle sue Opere ora pubblicate.
A D’Annunzio, invece, il successo non mancò mai e neppure i detrattori. A parte i parodisti che si scatenarono durante la sua stessa vita (primo fra tutti quell’Edoardo Scarfoglio che diventerà poi uno dei suoi migliori amici), in seguito, su di lui si appunteranno gli strali parodici di alcuni degli autori più significativi della letteratura italiana novecentesca: da Gian Pietro Lucini a Carlo Emilio Gadda a Pier Paolo Pasolini. Di questi tre scrittori, Giacomo D’Angelo sostiene che siano dannunziani senza volerlo ammettere e se si considera il pregio maggiore del D’Annunzio scrittore proprio la capacità di proliferazione linguistica e il tono alto nella elaborazione letteraria l’assunto potrebbe essere dimostrato senza bisogno di prove ulteriori (altra cosa è la dimensione ideologica che attraversa la produzione dannunziana e che certo i suoi detrattori non condividono con lui).
Il fatto è che D’Annunzio, a torto o a ragione, di buona voglia o meno, ha influenzato tutti gli autori più significativi della letteratura italiana contemporanea e che essa nasce da un confronto, anche negativo e furente, con la proposta di scrittura che è venuta dall’opera del poeta abruzzese.
Flaiano, invece, leggeva il suo conterraneo senza acrimonia o disprezzo, certo con simpatia:
«In un articolo su “Il Corriere d’informazione”, Flaiano commenta la prosa del codice della strada, che gli appare ispirata “ai nostri classici recenti (penso al Fucini, penso al D’Annunzio)”, poi cita un articolo che parla di armenti guidati di notte da guardiani con luci bianche e rosse e non resiste al nostos evocato dal poeta: “Vedete già la scena: vanno in Maremma! Oh perché non son io co’ miei pastori!”. Come rivela questo piccolo spicilegio, Flaiano cita il D’Annunzio con particolare garbo, non si aggrappa al Poeta per accanimenti parodistici: verso l’artista che riconosce grande, mostra non solo rispetto, ma una tenerezza amichevole, una simpatia umana, il tratto paesano di un sentimento solidale. Anche nella parodia di La pioggia nel pineto, dopo quella dispettosa di Luciano Folgore e altre più grevi, Flaiano con la sua Lettera d’autunno userà il tocco leggero: “Piove sul sottoscritto / Sul destinatario e sul mittente / Piove sul latore della presente”. A questo sottogenere letterario parteciperà Eugenio Montale, che alle parole più nuove del D’Annunzio opporrà l’uligine di parole consunte dalle tasse e dai malumori populistici: “Piove / non sulla favola bella / di lontane stagioni, / ma sulla cartella esattoriale, / piove sugli ossi di seppia / e sulla greppia nazionale. / Piove / sulla Gazzetta Ufficiale, / qui dal balcone aperto, / piove sul Parlamento, / piove su via Solferino, / piove senza che il vento / smuova le carte. / Piove in assenza di Ermione / se dio vuole, / piove perché l’assenza è universale» (pp. 75-76).
Così Montale in Satura in Piove, un testo in cui la malinconia si sposa alla satira della burocrazia e della poesia burocratica. Flaiano considerava, invece, D’Annunzio fratellevole e lo amava come un poeta della nostalgia e della lontananza ormai intervenuta dopo l’infanzia nei luoghi nativi ad essi comuni. Ma entrambi non vissero più in Abruzzo dopo la prima giovinezza e fecero le loro esperienze più significative chi a Prato, nell’allora prestigioso Convitto Nazionale “Francesco Cicognini” e chi anch’esso in collegio tra Chieti, Fermo e Senigallia prima di approdare a Roma, alla ricerca di fortuna, come tanti altri intellettuali italiani di allora (ivi compreso Fellini).
I due autori esaminati da Giacomo D’Angelo e definiti rispettivamente come l’Antiitaliano (Flaiano) e l’Arciitaliano (D’Annunzio) sono, in realtà, due autori che hanno avuto nel tempo un successo proporzionato non tanto al loro valore intrinseco ma alle mode e alle situazioni del momento fino a essere riposti nel Pantheon delle vecchie glorie di una cultura che ormai non c’è più. Questo essere ormai soltanto degli autori di nicchia che si leggono solo per dovere professionale o per rispetto alla tradizione italiana fa di essi degli scrittori da riscoprire in tutta la vasta gamma delle loro produzioni letterarie perché è in parte ad essi che un’immagine meno cursoria e meno fragile della letteratura italica del Novecento è ancor oggi affidata.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)
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